Zero tradizione, improvvisazione, mediocrità e spese folli: così il Motocross corre lontano dall’Europa.

Il quarto Gran Premio Motocross corso lontano dal vecchio continente ci costringe ad aprire una parentesi negativa. La pista su cui si è corso per il terzo anno consecutivo non ha fatto eccezione relativamente al livello degli impianti che ospitano i Gran Premi extra europei. Parliamo ovviamente, assieme al Messico, di Qatar e Thailandia.

Domenica 17 aprile si è corso il quinto round del Campionato del Mondo di Motocross 2016 a Leon, in Messico. La gara della classe MXGP è finita nelle mani di un ottimo Tim Gajser, mentre la categoria minore è stata ancora una volta dominata da Jeffrey Herlings, sempre più intenzionato ad annichilire tutti gli avversari.

Di come sia andato il GP però abbiamo scritto in un’altra sede. Qui parliamo della qualità del Campionato del Mondo MXGP nelle prove extra europee. La buttano lì in tanti, ma in pochi, o forse nessuno, ne ha ancora parlato apertamente, dicendo quello che tutti pensano.

Il quarto Gran Premio corso lontano dal vecchio continente ci costringe ad aprire una parentesi negativa. La pista su cui si è corso per il terzo anno consecutivo non ha fatto eccezione relativamente al livello medio degli impianti che ospitano i Gran Premi extra europei; parliamo ovviamente, assieme al Messico, di Qatar e Thailandia.

Tracciati di basso livello, posizionati in zone totalmente pianeggianti, disegnati senza fantasia, caratterizzati da ostacoli e salti monotoni, da un bassissimo coefficiente di spettacolarità. In una parola: brutte. Mi sento di affermare senza timore di smentita che, almeno in Italia, ci sono trofei regionali che si disputano su piste nettamente superiori.

La direzione del Campionato del Mondo ultimamente sta puntando molto su questi GP fuori Europa, ma a parte rare eccezioni, tipo l’Argentina, si stanno inanellando delusioni una dietro l’altra. Cancelletti di partenza semi vuoti, vuoi per gli eccessivi costi di trasferta per i piccoli team del vecchio continente, vuoi per mancanza di piloti locali al livello della competizione.

Dov’è il senso nell’obbligare le squadre a trasferte con spese stellari per essere alla partenza di Gran Premi su tracciati da terza categoria, con poco pubblico e trasmessi esclusivamente su reti televisive a pagamento? Se si spera in un ritorno d’immagine si è sbagliato tutto.

E cosa dire dei pochi rappresentati delle nazioni ospitanti che si azzardano a presentarsi al via? Fanno tutti la stessa fine: doppiati dopo pochissimi giri, rappresentando potenzialmente un pericolo per i più veloci.

Ai piloti autoctoni bisogna aggiungere i marshall disposti lungo il percorso, spesso non sufficientemente preparati e non pronti ad usare le bandiere in dotazione, in particolar modo quella blu, designata ad agevolare proprio i doppiaggi.

Si sta investendo nei confronti di paesi che non hanno alcuna tradizione motociclistica, né tanto meno fuoristradistica. Con quale scusa? Portare lo sport in nazioni con mercati emergenti, invogliati da governi locali disposti a pagare fior di denaro pur di ospitare manifestazioni di rango iridato. Ma siamo sicuri che tutto questo faccia bene, allo sport?

Va bene mettere in piedi un calendario da vero Mondiale, con prove disseminate su entrambi gli emisferi, è giusto. Ma forse sarebbe meglio badare agli interessi dei team e dei loro sponsor, dei piloti, del pubblico, insomma, di chi per davvero manda avanti la baracca. Sarebbe giusto fare il bene del Motocross, piuttosto che quello delle tasche degli organizzatori. Si dovrebbe guardare alla qualità dei Gran Premi e non alla quantità.

Portiamo il mondiale MXGP in Giappone, patria di Yamaha, Honda, Suzuki e Kawasaki; portiamolo in Australia e Nuova Zelanda, terra di grandi campioni; portiamolo con più prove negli Stati Uniti, cosa per la verità messa in atto quest’anno; riportiamolo a Sevlievo, Bulgaria; senza voler tirare in ballo quello spettacolo che era la Citadel di Namur, in Belgio.

Portiamolo ancora in Argentina e sperimentiamo paesi nuovi, senza stipulare contratti pluriennali a scatola chiusa con nazioni che hanno poco o nulla a che fare con il motorsport. Leggasi Thailandia, che negli ultimi due anni ha ospitato per due volte il Campionato facendolo correre prima a Nakhonchaisri e poi a Suphan Buri, su piste l’una più imbarazzante dell’altra. Non me ne vogliano i qatarioti, i thailandesi e i messicani, ma di gare con l’elenco partenti pieno solo a metà e corse su tracciati ridicoli ne abbiamo le tasche piene.

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